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Nel decennio il Tfr ha reso il 3,1% annuo

di Marco Liera

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17 Gennaio 2009

Uno degli investimenti vincenti del tormentato decennio finanziario alle nostre spalle è il Tfr: ha dato il 3,1% annualizzato, a fronte del 2,2% dell'inflazione. Un portafoglio bilanciato 50/50 tra azioni internazionali e titoli di Stato, tipico dei fondi pensione, ha generato nello stesso periodo l'1,9% annualizzato, al lordo dei costi. I fondi pensione sono partiti in un'epoca caratterizzata da una congiuntura straordinariamente avversa per gli investimenti previdenziali. Perché questo decennio ha registrato una delle peggiori performance della storia per l'azionario, l'asset class che tipicamente viene utilizzata per massimizzare le prestazioni nel lungo periodo: l'indice Msci World in euro total return ha perso l'1,9% all'anno. E contemporaneamente la bassa inflazione media del periodo ha permesso al Tfr (il cui rendimento è pari al 75% dell'indice Istat più l'1,5%) di godere di ottimi ritorni. Sicché l'alternativa naturale ai fondi pensione ha stravinto il confronto con gli strumenti previdenziali proprio nel decennio di avvio del secondo pilastro.
Ma sarebbe fin troppo facile trarre la conclusione che la previdenza complementare sia una scelta comunque perdente. Chi ha preferito tenere il Tfr in azienda – la grande maggioranza dei lavoratori dipendenti – ha manifestato l'esigenza di restare su uno strumento familiare e tutto sommato garantito. E questo è più che legittimo. Ma c'è da dubitare che, rinunciando al contributo datoriale e agli incentivi fiscali previsti per la previdenza complementare, abbia compiuto un'operazione efficiente sotto il profilo finanziario. Questo dubbio sarà ancora più attuale negli anni futuri, quando il contributo datoriale continuerà a comporre risultati e i rendimenti dei fondi pensione tenderanno verso una media di lungo periodo (mean reversion) che è storicamente più alta del tasso di rivalutazione del Tfr.
Certo, molti lavoratori che hanno aderito in modo convinto alla previdenza complementare si aspettano che i gestori professionali delle risorse dei fondi siano in grado di schivare i crolli dei mercati finanziari come quello delle Borse nel 2008. Sfortunatamente, questa è un'aspettativa irrealistica. Lo ha detto in settimana uno dei gestori indipendenti di maggior successo, David Swensen, alla guida dell'endowment dell'Università di Yale, una fondazione da 23 miliardi di dollari di patrimonio. Swensen non appartiene all'industria finanziaria, anzi, ne è uno dei più accaniti fustigatori (ha definito i fondi di fondi «un cancro del mondo degli investitori istituzionali»). Ha ottenuto da metà 1998 a metà 2008 un rendimento annualizzato del 16%, contro il 2% dell'indice S&P500. Per poi perdere il 25% nel terribile secondo semestre dell'anno scorso. Ma questo non lo induce a cambiare strategia nella gestione del suo fondo. «Non credo – ha dichiarato al "Wall Street Journal" di martedì 13 gennaio – che per gli investitori con un orizzonte di lungo periodo abbia senso costruire un portafoglio che dia buoni rendimenti durante le crisi dei mercati. Perché ciò comporterebbe l'uscita da impieghi azionari che si sono dimostrati efficaci per questi investitori». Questo vale sia per endowment come quello di Yale, sia per i fondi pensione di tutto il mondo. L'intolleranza alle oscillazioni nel valore del montante previdenziale è una delle spiegazioni più forti della preferenza verso il Tfr rispetto ai fondi pensione. Questa intolleranza può essere fronteggiata con una consulenza continuativa qualificata a favore degli iscritti ai fondi pensione che a oggi solamente i venditori di Pip e di fondi aperti sono teoricamente in grado di erogare. Ovviamente a pagamento.

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